Italia
Ornela Casassa, lo sfogo virale contro il lavoro sottopagato: “Basta abbassare l’asticella” (VIDEO)
Ornella Casassa, la storia di un’ingegneria ligure che in poco minuti ha fatto il giro del web

Ornella Casassa, un nome che nelle ultime ore è salito di prepotenza agli onori della cronaca. Merito di una frase: “A 27 anni devo vivere con 750 euro al mese? Non lo possiamo più accettare“. L’ingegnera l’ha pronunciata in un video finito su Tik Tok e diventato in breve virale. Il filmato è stato girato in un ristorante, dove la giovane si trovava a cena con un’amica consigliera della Regione Liguria in una lista di centrosinistra. Proprio quest’ultima ha pubblicato il video in cui Ornela dice di aver rifiutato la cifra, offertale al termine di un tirocinio in uno studio.
Il motivo? È presto detto: “Non ci pago l’affitto, non ci vivo“. E poi si scaglia contro la sinistra: “Deve far capire che dobbiamo smettere di abbassare l’asticella“. Una storia come ce ne sono tante nel mondo del lavoro giovanile, sempre più precario e mal retribuito. E non tutte purtroppo hanno la forza di uscire allo scoperto. Lei però ci è riuscita, dopo che 10 anni fa si è trasferita a Genova dalla sua Chiavari. “Lavoravo da 6 mesi in quello studio ingegneristico – racconta al Corriere della Sera – Erano soddisfatti di avermi nel team e mi hanno proposto una collaborazione a 900 euro a partita Iva. Tolte le tasse, erano quindi 750 euro. Solo 150 in più rispetto al tirocinio. Per me è stato uno schiaffo“.
Attualità
Svolta in Sicilia sull’aborto: un passo storico per i diritti delle donne

Una regione che per anni è stata simbolo delle difficoltà più estreme nell’applicazione della Legge 194/1978, quella che garantisce il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, ha appena compiuto un passo importante: l’’approvazione dell’articolo 3 del disegno di legge regionale n.738 segna un cambio di rotta netto, profondo, storico. D’ ora in poi, tutte le aziende sanitarie siciliane dovranno garantire spazi dedicati all’IVG e, cosa ancora più significativa, i bandi pubblici per il personale sanitario potranno includere il vincolo di non essere obiettori di coscienza.
Sembra banale, ma non lo è. Secondo il Ministero della Salute, nel 2022 il 60,5% dei ginecologi italiani si dichiarava obiettore, mentre in alcune strutture meridionali si toccavano punte del 90%.
Il problema che pochi si pongono é che mentre il medico si rifiuta, il diritto resta sulla carta.
A chi serve una legge che non può essere applicata?
Questa norma non impone, non forza nessuno a cambiare idea, ma mette al centro una verità che troppo spesso viene dimenticata: la decisione ultima spetta alla donna, non allo Stato, non al medico, non alla morale pubblica. Alla donna.
Guardando da Roma questa svolta siciliana, viene spontaneo chiedersi: e noi?
La Capitale d’Italia, che dovrebbe essere faro di diritti e di accesso alla sanità pubblica, presenta ancora oggi un contesto discontinuo: a Roma l’IVG è garantita in alcuni ospedali, ma i tempi d’attesa sono spesso incompatibili con l’urgenza della decisione, e molte donne finiscono col rivolgersi altrove o al privato.
E allora ben venga la Sicilia, se serve a ricordarci che la libertà di scelta non è un privilegio, ma un diritto e che l’obiezione di coscienza, se diventa regola e non eccezione, è un abuso.
Dietro ogni aborto c’è una storia che non ci riguarda, che non possiamo giudicare e che non ci appartiene.
Roma, città eterna, città delle battaglie civili, ha il dovere di vigilare, di pretendere che in ogni struttura sanitaria il diritto all’aborto sia garantito, non solo formalmente, ma concretamente. Perché quando si parla di IVG, ogni ostacolo, ogni ritardo, ogni silenzio è un fallimento dello Stato.
Il diritto di abortire non è un favore concesso, è una conquista civile, è la libertà di decidere sul proprio corpo, sulla propria vita e sul proprio futuro.
Una donna che sceglie di non diventare madre non è meno donna, né meno degna di rispetto.
Oggi è la Sicilia a dirci che si può cambiare, ora tocca a noi.
Attualità
Bambini col velo in vetrina: si può chiamare indottrinamento?

Nella vetrina di un negozio nel cuore di Bruxelles sono apparsi manichini , di adulti e bambini, vestiti con abiti tradizionali islamici, hijab compresi. Una scena che ha fatto discutere: c’è chi ha visto in quell’immagine un segno di integrazione e chi, invece, non l’ha presa bene.
La domanda da porsi è semplice: stiamo celebrando la diversità o ci stiamo piegando ad una visione che contrasta i valori laici dell’Europa?
L’hijab non è un semplice capo d’abbigliamento. Per molti è un simbolo religioso identitario; per altri, una manifestazione visibile di una visione patriarcale della società. Quando questo simbolo viene rappresentato su un manichino bambino, si tocca una corda particolarmente sensibile: si apre il dibattito sull’infanzia e sulla libertà di scelta. Un bambino non sceglie la propria religione né il proprio abbigliamento. Se quindi un negozio europeo espone un manichino infantile velato, non si sta forse normalizzando un’imposizione?
Siamo in un’epoca in cui l’inclusività è parola d’ordine, se il messaggio è davvero interculturale, perché non vedere mai, nei paesi a maggioranza islamica, manichini vestiti all’occidentale con minigonne o top scollati? Perché l’apertura deve sempre e solo andare in una direzione?
Bruxelles è la capitale dell’Europa in cui esporre simboli religiosi forti in un contesto secolare non è un gesto neutro, soprattutto quando tali simboli sono al centro di controversie globali sulla libertà femminile, sull’infanzia e sulla libertà di culto.
Con questo, anche Roma è uno specchio dei cambiamenti in corso: in particolare la zona Est della Capitale, come Torpignattara, Centocelle, Quarticciolo e Prenestina, che vive da anni una trasformazione socioculturale silenziosa, spesso ignorata dalla politica e dai media. Qui la multiculturalità è realtà quotidiana: le comunità islamiche sono radicate e visibili, con negozi, scuole religiose, e simboli che diventano parte del paesaggio urbano.
Il problema non è il velo in sé, ma il suo significato in un dato contesto: in Europa, dovrebbe valere il principio per cui ogni individuo ha diritto alla propria fede, ma anche alla libertà dalla religione. Se invece la società, per evitare accuse di islamofobia, comincia a rendere intoccabili certi simboli, si crea uno squilibrio culturale.
La vetrina dei manichini velati a Bruxelles è più di una scelta di marketing, è un indicatore di come l’Europa stia cercando, spesso confusamente, di conciliare tolleranza e identità. Difendere la libertà religiosa è importante, ma lo è anche interrogarsi su dove finisce l’inclusione e dove comincia la rinuncia ai valori della nostra società: laicità, libertà individuale e parità di genere. Se questi diventano tabù, allora il manichino non è più solo un modello in vetrina: è il riflesso di una società che ha paura di difendersi.
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